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Museo della Cattedrale e Cunicoli Etruschi Chiusi

MUSEI

Museo della Cattedrale e Cunicoli Etruschi

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RECAPITI E ORARI

Museo della Cattedrale e Cunicoli Etruschi
piazza del duomo 7 Chiusi

Telefono 0578-226490


Biglietto da visita (vCard)


ORARI DI APERTURA E VISITA:
dal 1° giugno al 15 ottobre: 9,30-12,45 e 16,30-19; dal 16 ottobre al 31 maggio: 9,30-12,45

Il Museo della Cattedrale di Chiusi si articola in un percorso estremamente differenziato, che consente di visitare parti del palazzo, giardino e orto vescovili, i cunicoli etruschi, la torre campanaria e - fuori dal centro abitato - le Catacombe di S. Mustiola e di S. Caterina, uniche catacombe cristiane presenti in Toscana. Il primo nucleo del Museo risale al 1932 e fu voluto dall’allora vescovo Giuseppe Conti per i libri di coro dell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore. Nel 1984 è stato realizzato il nuovo allestimento e il 30 maggio del 1992 si è inaugurato l’ampliamento con l’apertura di quattro sale al primo piano del palazzo, che si collegano al corridoio dei Corali. Il giardino e l’orto vescovili fanno parte del percorso museale fin dalle origini, mentre solo nel 1995 è stato aperto l’itinerario archeologico con i cunicoli etruschi, attraverso i quali è possibile passare sotto la piazza e raggiungere la cisterna romana e la sovrastante torre campanaria. La prima sezione espositiva del Museo è collocata al piano terreno in ambienti prossimi alla Cattedrale di S. Secondiano: sono esposti calchi di epigrafi, lucerne, frammenti ceramici e di vetro trovati nelle catacombe di S. Mustiola e S.Caterina. Alcune tavole marmoree e frammenti di un antico ciborio provengono dalla scomparsa basilica di S. Mustiola e un pavimento in mosaico - appartenente probabilmente a un edificio databile tra la fine del iv e gli inizi del v secolo - è emerso durante gli scavi nella zona presbiteriale di S. Secondiano.

Nella prima sala sono anche presentati materiali di età imperiale romana: tra essi un’urnetta cineraria marmorea di epoca augustea e parte di un grande sarcofago in marmo con Scene di battaglia contro i barbari, databile tra la fine del II e l’inizio del III secolo d.C.

Salendo le scale, a destra su un piano rialzato, sono esposti due Angeli reggicandelabro provenienti dalla cappella del Sacramento della cattedrale; l’iscrizione sul retro li ricorda intagliati nel 1789 da Tommaso Pagliazzi. Un ricco paliotto fu donato dal granduca Pietro Leopoldo nel 1787 per l’altare maggiore del duomo: è in velluto di seta cremisi, ornato da galloni in filo d’oro e da un coevo medaglione centrale d’argento sbalzato con l’immagine della Vergine Immacolata. Sono invece aggiunte tardo ottocentesche i due ovali laterali che mostrano Santi Vescovi.

Nella sala adiacente sono riuniti argenti, vasi, parati, arredi sacri, provenienti per la maggior parte dalla Cattedrale di S. Secondiano: rilevanti sono due cofanetti portareliquie in legno e avorio del XV secolo, opera della Bottega degli Embriachi, attiva a Venezia e in Lombardia. Il primo cofanetto, che è ornato da cornici con intarsi geometrici di legni diversi, mostra facce prive di decorazioni e torri eburnee angolari, l’altra custodia appartiene a una produzione più ricca, e le placchette in avorio ripropongono vicende delle bibliche Storie di Susanna. I due arredi, di cui non si conosce la provenienza, pervennero alla Cattedrale tra il 1607 e il 1620.

La sala accoglie anche un reliquiario a busto in legno intagliato e policromato di primo Seicento raffigurante Ireneo, il santo diacono - incarcerato per aver seppellito in Sutri il corpo del martire Felice - che in prigione fu confortato dalla nobile Mustiola, patrona della diocesi di Chiusi.

Le vetrine racchiudono inoltre numerosi arredi, tessuti e vasi sacri realizzati tra il XV e il XIX secolo: interessante un piatto per elemosine quattrocentesco di produzione tedesca, che proviene dalla parrocchia di S. Pietro a Macciano e presenta al centro a sbalzo La tentazione di Adamo ed Eva. Si tratta dell’iconografia più diffusa in simili bacili: un esemplare analogo è segnalato ad esempio nella chiesa di S. Maria delle Scale a Ragusa. Significativi inoltre una pianeta seicentesca che mostra sullo stolone le immagini dell’Assunzione della Vergine, di una testa di cherubino e del monogramma bernardiniano, la cui tipologia è riferibile alla produzione fiorentina di primo Cinquecento, e il reliquiario della Santa Croce, che il punzone presente sul fusto in lamina d’argento indica realizzato nella bottega degli argentieri senesi Bonechi. Nell’Ottocento furono donati alla Cattedrale un Crocifisso d’avorio su piedistallo in marmo e una muta di candelieri in ottone, forse proveniente da Monte Oliveto Maggiore.

Si sale alla stretta galleria nella quale sono esposti ventuno codici miniati di Monte Oliveto Maggiore, Abbazia che faceva parte della diocesi di Pienza, retta da monsignor Giuseppe Pannilini, che era anche vescovo di Chiusi. Il prelato, entrato in possesso dei preziosi volumi a seguito delle soppressioni napoleoniche, li donò alla cattedrale di S. Secondiano nel 1810. I corali furono rubati alla fine del 1987, ma fortunatamente recuperati un mese dopo e qui ricollocati il 25 giugno 1988.

I libri di coro furono commissionati nel 1456 da Francesco della Ringhiera, abate generale dell’Ordine Olivetano (istituito da Bernardo Tolomei e sancito nel 1344, ancora vivo il fondatore), al fine di dotare l’archicenobio di un ciclo corale completo, composto da tredici antifonari, un salterio, quattro graduali e un graduale-kiriale. La copiatura dei volumi - contraddistinti dalle lettere dell’alfabeto - si deve al monaco olivetano Alessandro da Sesto Milanese e alla sua bottega. Alessandro fu celebre calligrafo ma anche miniatore di penna, cioè autore dei capilettera filigranati decorati con inchiostro rosso o azzurro, sul cui corpo un disegno risparmiato lascia intravedere la pergamena. Altri capilettera si devono a Fra Bartolomeo da Ferrara e a un altro confratello, Ambrogio da Milano. Scriptor e filigranatore attivo nei corali fu anche Fra Bartolomeo di Boniforte da Vimercate.

Alla realizzazione delle miniature “di pennello”, che si protrasse fino al 1490, furono chiamati alcuni degli artisti più famosi dell’epoca: il senese Sano di Pietro, che lavorò nell’archicenobio tra il 1459 e il 1463 e il fiorentino Bartolomeo d’Antonio Varnucci, la cui presenza non è documentata ma solo ipotizzata su base stilistica. L’intervento numericamente più cospicuo si deve a Venturino Mercati, miniatore di formazione lombarda ancora imbevuto di stilemi desunti dalla tradizione fiammingo-borgognona e ferrarese. Gli altri maestri che hanno operato nei corali di Monteoliveto sono meno legati alla cultura tardogotica e appaiono proiettati nel mondo rinascimentale: Liberale da Verona (al quale si devono sette minii e numerose iniziali foliate) vi lavorò intorno al 1466, Gerolamo da Cremona ha realizzato un solo minio nel 1472, mentre si suppone che la partecipazione di Francesco di Giorgio Martini sia limitata alla bottega.

La galleria dei corali conduce alle sale aperte nel 1992 nel Palazzo Vescovile per accogliere opere della diocesi chiusina: non si conosce la provenienza della lacunosa tavola con la Madonna col Bambino in trono tra San Giacomo e Sant’Andrea, attribuita al pittore senese Girolamo di Benvenuto, mentre giunge da S. Francesco a Cetona una Madonna col Bambino in trono riferita allo stesso artista.

Era sull’altare maggiore della medesima chiesa una piccola Madonna col Bambino su tela, attribuita a Sano di Pietro. Il dipinto sembra databile tra il 1455 e il 1460: date le ridotte dimensioni è difficile ipotizzarne l’uso originario, ma si potrebbe supporre che fosse destinato alla devozione privata e che in seguito sia stato inserito in una cornice seicentesca in argento - riferita a una bottega orafa romana - alla quale nel 1806 si è voluto aggiungere un piedistallo.

Una tavola raffigura la Madonna con Santa Mustiola e San Felice (o Ireneo): già attribuita alla bottega del Sodoma, è stata recentemente ascritta al pittore senese Marco Bigio, personaggio dai vaghi contorni biografici. Il soggetto del dipinto induce a presumere che provenga dalla basilica di S. Mustiola; alla in parte leggendaria Passio della Santa rinvia il flagello - costituito in questo caso da un bastone da cui si dipartono tre funi terminanti in palle di piombo - con il quale la giovane nobile fu fustigata a morte. L’altro santo raffigurato è variamente identificato come il martire Felice, sepolto da Ireneo, o come Ireneo stesso. È invece sicuramente San Felice ad apparire in un’altra tela, dinanzi a una veduta idealizzata di Chiusi.

La toccante scultura del Cristo crocifisso in legno policromo, databile tra XIV e XV secolo, è pervenuta dalla parrocchia di Macciano: era utilizzata sia come croce che per l’esposizione nel corso della Settimana Santa. Al centro della sala sono raggruppate in una vetrina importanti oreficerie: proviene da Celle sul Rigo una croce d’altare di primo Quattrocento, che presenta sul recto il Cristo e, nelle formelle polilobate terminali, la Vergine e San Giovanni, la Maddalena e il pellicano; il verso mostra Cristo benedicente e gli Evangelisti (manca quello inferiore).

Una stauroteca - cioè uno di quei reliquiari destinati a racchiudere frammenti della “Vera Croce”, di cui ripetevano la forma - era originariamente conservata nella Collegiata della SS. Trinità di Cetona. In una iscrizione reca la data 1436 e recentemente è stato proposto, per analogia con il Cristo della croce nel Museo diocesano di Pienza, che l’artista sia da ricercare in Goro di Ser Neroccio. Sul verso mostra pietre dure e miniature aggiunte nel XVII secolo.

Uno sportello di tabernacolo in rame dorato era già utilizzato per l’edicola marmorea dell’altare della Collegiata di S. Lorenzo a Sarteano, compiuta nel 1514 da Lorenzo di Mariano detto il Marrina, al quale si può verosimilmente ascrivere anche il disegno dello sportello, al quale pose poi mano un orafo senese. Nello specchio inferiore è inserita l’iscrizione che ricorda la data di esecuzione e il nome del committente, il canonico della cattedrale di Siena Francesco Pilli, che volle ripetuta sull’elegante manufatto la luna crescente, alludente allo stemma Piccolomini Todeschini, famiglia da cui fu protetto.

La Mater dolorosa conservata nella sala successiva proviene dalla cattedrale: la Vergine appare presso un parapetto marmoreo sul quale poggiano simboli della Passione. Si tratta di una replica seicentesca - limitata alla sola figura della Madonna - del Cristo nel sepolcro con la Vergine di Alessandro Allori, firmato e datato 1580, attualmente in deposito presso il Museo di Arezzo. Sono note numerose copie analoghe, a testimonianza della grande fortuna del soggetto che, nello sguardo sofferto della Madonna e nella sottolineatura degli elementi più fortemente devozionali, esprime il patetismo di una certa pittura riformata.

Alla stessa temperie religiosa fa riferimento la tavola con Cristo portacroce, opera di un pittore fiorentino della metà del Cinquecento. A un artista senese attivo traXVI e XVII secolo - indicato dalla critica in Francesco di Vincenzo Rustici - è attribuita la tela della Sacra Famiglia con San Giovannino e Santa Caterina: toni familiari e intimistici si riscontrano nella Vergine che, seduta su di una seggiolina, insegna a leggere al Figlio. Questi, abbigliato con una graziosa vestina rossa, calzato di sandaletti e protetto da collana e bracciali di corallo, è distratto da un gesto del San Giovannino. In secondo piano appare Giuseppe, mentre di lato si affaccia Caterina da Siena in preghiera.

A Vincenzo Rustici è ascritta la tela della Madonna in gloria con San Francesco; a Sebastiano Folli (in via dubitativa) un Sant’Ireneo e a un pittore emiliano della seconda metà del Cinquecento il Matrimonio mistico di Santa Caterina d’Alessandria. In una vetrina centrale sono esposti argenti e un armadio a muro racchiude gli indumenti utilizzati per il Pontificale da monsignor Carlo Bandini, vescovo di Chiusi dal 1941, che morì nel 1970. Nella terza sala sono presentate svariate tele: un bel dipinto ottagonale con Cristo che benedice il pane, attribuito al fiorentino Matteo Rosselli, databile alla prima metà del Seicento; l’Allegoria della Passione di Gesù, riferita a un artista forse senese della seconda metà del secolo; un Cristo flagellato di pittore toscano, oltre a due paesaggi settecenteschi. Una pianeta in velluto di produzione veneziana proviene dalla pieve di S. Paolo Converso di Celle sul Rigo.

La quarta sala, che si raggiunge dalla prima, presenta in una vetrina alcune oreficerie, tra le quali due lampade a triplice sospensione in argento datate 1714, già nella chiesa di S. Michele a Cetona. Un ritratto, che reca su una lettera la data 1645 e il nome di Nicola Paganucci, è stato riferito a un artista vicino a Ilario Casolani: il severo effigiato, forse uno studioso di astronomia come farebbe presumere la sfera armillare poggiata su un tavolo, contrasta con la graziosa bambina che esibisce un vezzoso grembiulino e monili di corallo. A un artista senese del XVII secolo è attribuita la tela con San Giovanni nel deserto, e dallo stesso ambito proviene una Annunciazione datata 1646 e siglata F.G. Si ritorna al piano terreno e si esce nell’orto vescovile, dove è possibile affacciarsi su un pozzo profondo circa venti metri.

Si procede nella terrazza e si scendono scale in ferro: alla vista si offrono i risultati di scavi compiuti negli anni Ottanta, che hanno evidenziato i resti della cinta muraria di età romana, una porzione di muro ellenistico e ruderi di una torre medievale.

Il percorso museale prosegue attraverso un cunicolo reso percorribile con imponenti lavori conclusisi nel 1995. Il tratto liberato dai detriti accumulatisi nei secoli si addentra per circa 120 metri a una profondità di 10 metri e rappresenta solo una minima parte delle gallerie scavate nella collina composta da sabbia pliocenica (tufite) e da un conglomerato detto “tischio”, che sono collegate con la quota dell’insediamento urbano per mezzo di pozzi e cisterne. I cunicoli risalgono al iv secolo a.C. e servivano probabilmente allo smaltimento, drenaggio e approvvigionamento cittadino dell’acqua, ma l’immaginario popolare li ha trasformati nel mitico “Labirinto di Porsenna”, che secondo la leggenda aveva al centro la misteriosa tomba del Lucumone, di cui narra Plinio il Vecchio.

Seguendo il diramato percorso si raggiunge - sotto la piazza della Cattedrale, quasi in asse con la torre campanaria - una grandiosa cisterna etrusco-romana con le pareti scavate nella roccia arenaria. Risale al I secolo a.C. e ha pianta circolare, diametro di oltre sei metri e altezza di circa otto; su un pilastro centrale in travertino si impostano due arcate che dividono la parte superiore in due volte a botte. I blocchi di travertino sono uniti con grande precisione senza l’ausilio di calce e le pareti mostrano in alto ancora tracce dell’intonaco, detto “cocciopesto”, che doveva renderle stagne. Originariamente la cisterna era utilizzata come riserva idrica, probabilmente anche in caso di incendio; per far defluire l’acqua al fine di pulirla, si sfruttavano forse i preesistenti cunicoli etruschi. La visita della cisterna è possibile dal 1954, ma vi si accedeva dalla piazza, mentre nel 1995 si è provveduto a riaprire il collegamento dei cunicoli con la cisterna stessa.

Il percorso prosegue risalendo nella torre campanaria, del XII secolo, che in origine fu struttura difensiva in conci squadrati di travertino e venne poi trasformata nel 1585 in campanile della Cattedrale con l’aggiunta della cella campanaria in laterizi. Una moderna (1994) scala di 142 gradini permette di raggiungere la terrazza superiore, dalla quale si può fruire di un eccezionale panorama che spazia fino a Montepulciano, al lago Trasimeno, all’Amiata e alla Valdichiana.

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